venerdì 30 dicembre 2011

2. Unblued




Cara Gemma del Sud,
rispetto all’ultima lettera che ti ho scritto, credo di poterti parlare di grandi novità. Recentemente, ho iniziato a frequentare una ragazza del terzo anno di Corvonero, una certa Marilyn Monroe. È una persona adorabile, che è riuscita ad andare oltre le apparenze, la mia fiata mattutina e le cipolle dei miei piedi, pur di conoscermi a fondo. Da allora, i tomi che mi lanciano i compagni non fanno più così male. I libri di Incantesimi hanno persino smesso di beccarmi di spigolo!
Sarà fortuna, oppure ho trovato un angelo custode?
Ho visto che ultimamente hai smesso di caricare video su YouTube. Tutto a posto?
Spero che non sia per la mia assenza.
Scrivimi presto,
i tuoi consigli sono sempre preziosi

            Bella

P.S. Salutami la tua gemella.


Con uno sputo, chiusi la lettera e la legai al collo di Pikachu, il mio animale famiglio. A scuola potevamo portare solo gufi, gatti, rospi o sorci. Ero fermamente convinta che Pikachu non appartenesse a nessuna delle categorie sopra elencate, ma una parte di me non voleva indagare oltre.
«Fa’ presto» gli dissi, senza credere alle mie parole. Pikachu, mi aveva spiegato il vucumprà della bancarella dove l’avevo vinto con i punti fragola dell’Esselunga, aveva un ritardo del lobo temporale. Sapevo che non avrebbe portato quella lettera prima di due mesi.
«Bau bau» mi rispose sbavando e si diresse contro la porta chiusa.
Veloce mi alzai dal letto e lo lasciai uscire dal passaggio segreto che impediva accesso agli estranei nella sala comune del mio dormitorio.
Mentre chiudevo la porta, mi sembrò di vedere una freccia incendiaria saettare contro il mio povero famiglio. Non volli aprire per controllare che non fosse stato colpito. Dovevano essere gli amici di Harry Potter.
Harry era un ragazzo pieno di turbe; nonostante ciò, non c’era un solo studente in tutta Hogwarts che ne parlasse male. Tutto per una stupida cicatrice a forma di saetta che gli conferiva l’aspetto di una cappella circoncisa da un macellaio.

«È solo molto timido. I suoi genitori sono morti di overdose» fece Marilyn a colazione, mentre addentava uno stinchetto natalizio di maiale della Clerici.
Harry non si era presentato a colazione. Il trono che il preside della scuola, insieme a tutto il corpo docente, aveva fatto installare davanti al suo posto era vuoto. Un elfo domestico l’aveva tirato a lucido e addobbato con aghi di pino e ghiaccio incantato. I braccioli dorati – alcuni affermavano che quell’oro provenisse dai bracciali del Papa – scintillavano sotto il pallido sole del mattino, che le nuvole avevano già iniziato a coprire.
«Vorrei essere sua amica» le dissi fissando la mia zuppa di ‘nduja e mentos. «Se non sbaglio, adesso ho due ore di  Quidditch insieme ai Grifondoro. Oggi sono ottimista, gli parlerò».
Sarebbe stata la mia prima lezione. Ero molto curiosa, Marilyn me l’aveva descritto come uno sport eccitante, quasi quanto il Blitzball che ero solita giocare insieme ai Cullen.
«Mi raccomando» mi aveva detto puntandomi un osso ancora non del tutto spolpato in faccia, «alla prima lezione ti verrà voglia di andare subito molto in alto. Non farlo!».
«Perché?», le chiesi, mentre venivo benedetta dal grasso del porco.
«Hai visto tra i Tassorosso?».
Veloce mi voltai verso il penultimo tavolo sulla sinistra.
«Hai visto quella ragazza con l’occhio più aperto dell’altro?», aggiunse strappando un altro morso alla sua colazione.
«Sì, chi è?».
«È Cesara Buonamici. Lei dice che sia stato il botox, ma lo sappiamo tutti che è per colpa dell’ultimo torneo di quidditch. Un atterraggio di faccia le ha giocato questo brutto scherzo».
Il quidditch. Possibile che un gioco potesse essere così pericoloso? Tutto quello che sapevo è che si svolgeva in aria, a cavallo di scope incantate che potevano volare. Si giocava con quattro palle. Una grossa palla, detta pluffa, che tre giocatori dovevano riuscire a far passare in mezzo agli anelli della porta avversaria per fare punto; un boccino d’oro, liberato all’inizio della partita, che volava velocissimo e piccolissimo e che due giocatori – uno per squadra – dovevano afferrare per ottenere centocinquanta punti e far finire la partita; e, infine, due bolidi, grossi e pesanti, venivano lanciati contro i giocatori della squadra avversaria, per disarcionarli dalle loro scope.

L’aria pungente del mattino inglese si era appesa alla mia faccia e non intendeva lasciarla stare. Un brivido mi percorse lungo la schiena, facendomi stringere attorno al collo la sciarpa con i colori della mia casata, rosa e marrone.
«Mi raccomando, ragazzi, non commettete imprudenze».
David Beckham, il nostro professore di volo, stava in piedi in mezzo al campo di quidditch con la sua abituale uniforme, un paio di succinti slip Emporio Armani e dei calzettoni di spugna tirati su fino al ginocchio perfettamente depilato. Grifondoro e Serpeverde avevano iniziato ad agitarsi, impazienti di mostrare l’un l’altro chi fosse il migliore.
«Mio padre mi ha comprato una Folletto 2.0» disse Richie Rich, un bambino che nella vita guadagnava soldi recitando la parte di Macaulay Culkin. «Se solo avessi potuto portarla a scuola...».
«Impossibile» lo interruppe Beckham. «È severamente vietato portare scope che non siano di proprietà della scuola, a meno che non si faccia parte della squadra ufficiale della propria casa».
Il professor Beckham ci condusse davanti a delle scope accatastate sull’erba.
«Quest’anno», aggiunse, «noi professori abbiamo tutti intenzione di iniziare il torneo di quidditch il prima possibile. Dalla prossima lezione, dovremo lasciare il campo libero ai titolari delle squadre per gli allenamenti».
Harry Potter prese la sua scopa. Lui era l’unico che aveva potuto portarla da casa. Gli altri ragazzi si fiondarono sul mucchio, cercando di afferrare quelle migliori.
Presi, come gli altri, la prima scopa che mi capitò sotto mano. Era leggera come una piuma.
Beckham ci fece mettere in fila e accennò un passo di danza.
A quel punto, montai sulla mia scopa.

venerdì 23 dicembre 2011

1. Unbalanced




Non aver paura amore, ti troverai benissimo...

Da quando, in una fredda mattina di settembre, ero arrivata in quel maniero così sconosciuto e ostile, le parole di Edward non avevano smesso di echeggiare nella mia mente nemmeno per un istante.

La Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts.
Cosa ci facevo io, Bella Swan, in un paese che non mi apparteneva? Lontano da Charlie, dai miei amici, da Forks, ma soprattuto da Edward Cullen, il vampiro del mio tenero cuore di miele? 
Eppure, continuavo a ripetermi incessantemente di aver fatto la scelta giusta. Dentro di me, sebbene flebile, una piccola candela di speranza riscaldava il muro delle mie insicurezze. Solo così, solo accedendo a quelle conoscenze ancestrali, sarei riuscita a diventare anche io una magica Emi. 
La famiglia di Edward, all’inizio così gentile e disponibile, aveva improvvisamente manifestato una certa diffidenza nei miei riguardi, quando aveva scoperto che il mio unico talento era quello di riuscire ad appendere i quadri a colpi di fronte. Dovevo guardare in faccia la realtà: non ero come loro.
«Non è vero, loro ti adorano». Edward non smetteva di ripeterlo, ma io non gli avevo mai creduto. Veloci, come gocce su un impermeabile, le sue parole mi scivolavano addosso. Mi sentivo sbagliata, sapevo che non mi avrebbe mai accettata del tutto, se la sua famiglia di vampiri avesse persistito nel mettermi a disagio continuo. Facendomi sentire un’estranea.  Facendomi sentire inferiore. Facendomi sentire magica quanto una serranda.
«Forse ci sarebbe una soluzione» mi disse Edward, un giorno in cui ero particolarmente provata. Il sole era da poco uscito dal denso strato di foschia. I suoi lineamenti perfetti venivano carezzati dai primi raggi, che li facevano brillare, conferendogli una bellezza quasi illegale. Il vampiro si sedette accanto a me e rimase in silenzio ad ammirare il fulgore della natura, che risplendeva attorno a noi, in un misto di divertimento e contemplazione. 
«Amo il suono degli uccellini... fanno cip cip».
Edward riusciva a essere così profondo. Distolsi lo sguardo velocemente da quello spettacolo, del tutto incapace di mantenere il contatto visivo con lui troppo a lungo. Quel suo sorriso sghembo mi faceva impazzire.
La gigetta aveva iniziato a brontolare sommessamente.
«Cosa hai detto?» risposi in un sussurro.
«C’è una soluzione».
Una soluzione? Che bisogno c’era di una soluzione? Cos’è che andava risolto? Lo sapevo, per lui ero sempre stata un problema, qualcosa di cui vergognarsi. 
Un moto di rabbia mi risalì dallo stomaco fino al cuore, come negli Harmony. Avrei voluto fuggire, urlare e piangere. Ma le lacrime non sarebbero state d’aiuto. Avrebbero solo ribadito la mia triste mortalità. Feci per andarmene, ma le gambe rimasero ferme. Avevo sempre avuto dei seri problemi di deambulazione.
La verità, purtroppo, è che non avrei mai potuto ribellarmi al giogo del suo amore; mi aveva in pugno. Ero letteralmente, profondamente, inequivocabilmente e indissolubilmente innamorata di lui: di Edward Cullen, il vampiro glitterato peggio di Bratz Transgender.
Ecco perché decisi di frequentare una scuola che mi avrebbe reso alla sua altezza. 
Dissi a mio padre che sarei partita oltreoceano, per frequentare una scuola che mi avrebbe reso magica come Pippa. Charlie acconsentì alla mia partenza senza opporsi eccessivamente. Da anni, oramai, aveva iniziato ad assumere antidepressivi per alleviare lo stress derivato dalle mie frequentazioni: Edward Cullen, il vampiro ammazza conigli, Jacob Black, il lupo mannaro, Fonzie di “Happy Days” e la YouTuber Gemma del Sud.

L’impatto con la scuola fu pesantissimo, non ero abituata a stare al centro dell’attenzione durante le numerose lezioni a palazzo. Quando i professori mi chiedevano per quale motivo la mia bacchetta non emettesse nemmeno una flatulenza di scintille e polvere di fate, tutti mi guardavano in maniera strana; la verità era molto semplice: anche qui, non stavo venendo apprezzata minimamente. 
Perfino il più scarso della classe era riuscito a padroneggiare gli incantesimi di levitazione, ingrandimento mani e cura ferite leggere +3.
«Chi cazzo è questa?» furono le uniche parole che riuscirono a strappare al cappello parlante, durante la cerimonia di smistamento. Dopo aver parlato, era rimasto in silenzio sulla mia testa, gettandomi nello sconforto e facendomi desiderare di tornare a casa. Le guance non smettevano di bollire dalla vergogna. Mi sarei alzata, sarei uscita di corsa dalla porta, ma le gambe non volevano rispondere ai miei comandi. Dov’era Edward? Lui mi avrebbe portato in groppa per i corridoi alla velocità della luce, come era solito fare in mezzo al bosco – senza alcun motivo apparente.

Fu in quel momento che Yoda, il preside della scuola, parlò.  Decise di non farmi tornare e creò una casa apposta per me, il cui simbolo preferisco non descrivere. 
Una casa alla quale appartenevo solo io. 
Da allora, seguivo le lezioni insieme agli altri allievi. Rimbalzando da una parte all’altra, come una piuma in mezzo a una tormenta invernale.

Era da poco iniziato dicembre, Edward mi mancava da morire. Avevo iniziato a bere alcol etilico e smesso di lavarmi l’infrachiappa, quando accadde qualcosa di inaspettato a lezione.
«Dopo i risultati dell’esterna di Maria di ieri, credo che sia il caso che la signorina Swan torni a casa il prima possibile, per evitare di perdere ulteriore tempo» disse Renato Zero, il nostro cantante di Pozioni. 
Intorno a me, gli studenti di Grifondoro e Corvonero sbottarono a ridere, per compiacerlo. Arrossii visibilmente e mi nascosi dietro le onde castane dei miei capelli. Sapevo che il Cantante non si sarebbe dato per vinto e avrebbe continuato a umiliarmi pubblicamente.
Fu allora che, da pochi banchi alla mia destra, si levò una voce.
«La signorina Swan ha diritto come tutti noi di stare in questo posto. Il Professor Yoda ha parlato chiaramente».
«Signorina Monroe, a cosa dobbiamo questo intervento?».
Marilyn Monroe era una bellissima studentessa bionda di Corvonero, casata che riuniva all’interno tutti gli studenti più brillanti e intellettualmente dotati della scuola. 
Marilyn non sapeva solo cantare e ballare, ma grazie al suo indiscusso acume, con gli anni, era riuscita a diventare la cocca della rappresentante di Corvonero: Paris Hilton.
«In qualità di Prefetto, credo di trovarmi nella posizione per difendere la signorina Swan».
Il Professor Zero squadrò la ragazza in un silenzio che ci fece trattenere il fiato.
«Temo che Bella appartenga a una casata diversa dalla sua, signorina Monroe».
Fu Marilyn la prima a prendere una boccata d’aria, volgendosi verso di me. Ero al sicuro. Sapevo che avrebbe trovato le parole giuste, per controbattere.
Marilyn si passò una mano tra i boccoli dorati.
«Scusa, di che casa sei, Bella?» mi chiese sorridendo.
Aspettai un secondo prima di risponderle.
«Sono l’unico membro di “Chiccazzoèquesta”».
Detto ciò, me ne uscii dall’aula senza guardarmi indietro, lasciando la borsa e i libri sul banco.

A pranzo sedevo sola, con la faccia rivolta verso il muro, come mi ero velocemente abituata a fare. In silenzio fissavo il mio pasto, avvolta dalle risate spensierate dei miei compagni alle mie spalle. Le lacrime mi impedivano di mettere chiaramente a fuoco il club sandwich che gli elfi domestici, servi di Antonella Clerici, cuoca della scuola, avevano preparato per gli studenti.
Avrei voluto mostrare il mio talento al mondo, ma i quadri della scuola erano tutti attaccati con la magia. Niente chiodi da battere con violenza.

«Hai dimenticato questi» fece una voce dietro di me. 
Mi voltai. 
Marilyn mi stava sorridendo, porgendomi la borsa che avevo lasciato in aula. 
«Ti ho messo tutto in ordine. Li avevano presi per tentare di otturare i cessi dei sotterranei.  Non ti preoccupare, ho usato un incantesimo per ripulirli a fondo».
In silenzio aprii la borsa. Una zaffata di violette e merda mi investì, mozzandomi il fiato.
«Grazie» mormorai timidamente, sperando che le luci che avevo iniziato a vedere se ne andassero in fretta.
«Domani posso sedermi con te a lezione?» aggiunse aggiustandosi il vestito bianco che aveva iniziato a svolazzare, per colpa del tombino sotto i suoi piedi che si trascinava ovunque.
Stava parlando con me? Marilyn Monroe, la studentessa modello amata da tutti, stava veramente rivolgendo parola a me? 
Biascicai un sì e aspettai che Marilyn tornasse vicino alle sue amiche, prima di prendere in mano il libro della lezione successiva.
Bella non è bella, campeggiava, scritto a penna, sotto il titolo. 
Evidentemente qualcuno, approfittando della mia assenza, aveva deciso di farsi quattro risate.
Con gli occhi carichi di tristezza, lo aprii.

Dentro c’era un’altra scritta:

Bella troia.
Bene così.

Alla prossima settimana! :)