Cara Gemma del Sud,
rispetto
all’ultima lettera che ti ho scritto, credo di poterti parlare di grandi
novità. Recentemente, ho iniziato a frequentare una ragazza del
terzo anno di Corvonero, una certa Marilyn Monroe. È una persona adorabile, che
è riuscita ad andare oltre le apparenze, la mia fiata mattutina e le cipolle
dei miei piedi, pur di conoscermi a fondo. Da allora, i tomi che mi lanciano i
compagni non fanno più così male. I libri di Incantesimi hanno persino smesso
di beccarmi di spigolo!
Sarà
fortuna, oppure ho trovato un angelo custode?
Ho visto che ultimamente hai
smesso di caricare video su YouTube. Tutto a posto?
Spero che non sia per la mia
assenza.
Scrivimi presto,
i tuoi consigli sono sempre
preziosi
Bella
P.S. Salutami la tua gemella.
Con
uno sputo, chiusi la lettera e la legai al collo di Pikachu, il mio animale
famiglio. A scuola potevamo portare solo gufi, gatti, rospi o sorci. Ero
fermamente convinta che Pikachu non appartenesse a nessuna delle categorie
sopra elencate, ma una parte di me non voleva indagare oltre.
«Fa’
presto» gli dissi, senza credere alle mie parole. Pikachu, mi aveva spiegato il
vucumprà della bancarella dove l’avevo vinto con i punti fragola
dell’Esselunga, aveva un ritardo del lobo temporale. Sapevo che non avrebbe
portato quella lettera prima di due mesi.
«Bau
bau» mi rispose sbavando e si diresse contro la porta chiusa.
Veloce
mi alzai dal letto e lo lasciai uscire dal passaggio segreto che impediva
accesso agli estranei nella sala comune del mio dormitorio.
Mentre
chiudevo la porta, mi sembrò di vedere una freccia incendiaria saettare contro il
mio povero famiglio. Non volli aprire per controllare che non fosse stato
colpito. Dovevano essere gli amici di Harry Potter.
Harry
era un ragazzo pieno di turbe; nonostante ciò, non c’era un solo studente in
tutta Hogwarts che ne parlasse male. Tutto per una stupida cicatrice a forma di
saetta che gli conferiva l’aspetto di una cappella circoncisa da un macellaio.
«È
solo molto timido. I suoi genitori sono morti di overdose» fece Marilyn a
colazione, mentre addentava uno stinchetto natalizio di maiale della Clerici.
Harry
non si era presentato a colazione. Il trono che il preside della scuola,
insieme a tutto il corpo docente, aveva fatto installare davanti al suo posto
era vuoto. Un elfo domestico l’aveva tirato a lucido e addobbato con aghi di
pino e ghiaccio incantato. I braccioli dorati – alcuni affermavano che
quell’oro provenisse dai bracciali del Papa – scintillavano sotto il pallido
sole del mattino, che le nuvole avevano già iniziato a coprire.
«Vorrei
essere sua amica» le dissi fissando la mia zuppa di ‘nduja e mentos. «Se non
sbaglio, adesso ho due ore di Quidditch insieme
ai Grifondoro. Oggi sono ottimista, gli parlerò».
Sarebbe
stata la mia prima lezione. Ero molto curiosa, Marilyn me l’aveva descritto
come uno sport eccitante, quasi quanto il Blitzball che ero solita giocare
insieme ai Cullen.
«Mi
raccomando» mi aveva detto puntandomi un osso ancora non del tutto spolpato in
faccia, «alla prima lezione ti verrà voglia di andare subito molto in alto. Non
farlo!».
«Perché?»,
le chiesi, mentre venivo benedetta dal grasso del porco.
«Hai
visto tra i Tassorosso?».
Veloce
mi voltai verso il penultimo tavolo sulla sinistra.
«Hai
visto quella ragazza con l’occhio più aperto dell’altro?», aggiunse strappando
un altro morso alla sua colazione.
«Sì,
chi è?».
«È
Cesara Buonamici. Lei dice che sia stato il botox, ma lo sappiamo tutti che è per
colpa dell’ultimo torneo di quidditch. Un atterraggio di faccia le ha giocato
questo brutto scherzo».
Il
quidditch. Possibile che un gioco potesse essere così pericoloso? Tutto quello
che sapevo è che si svolgeva in aria, a cavallo di scope incantate che potevano
volare. Si giocava con quattro palle. Una grossa palla, detta pluffa, che tre
giocatori dovevano riuscire a far passare in mezzo agli anelli della porta
avversaria per fare punto; un boccino d’oro, liberato all’inizio della partita,
che volava velocissimo e piccolissimo e che due giocatori – uno per squadra – dovevano
afferrare per ottenere centocinquanta punti e far finire la partita; e, infine,
due bolidi, grossi e pesanti, venivano lanciati contro i giocatori della
squadra avversaria, per disarcionarli dalle loro scope.
L’aria
pungente del mattino inglese si era appesa alla mia faccia e non intendeva
lasciarla stare. Un brivido mi percorse lungo la schiena, facendomi stringere
attorno al collo la sciarpa con i colori della mia casata, rosa e marrone.
«Mi
raccomando, ragazzi, non commettete imprudenze».
David
Beckham, il nostro professore di volo, stava in piedi in mezzo al campo di
quidditch con la sua abituale uniforme, un paio di succinti slip Emporio Armani
e dei calzettoni di spugna tirati su fino al ginocchio perfettamente depilato.
Grifondoro e Serpeverde avevano iniziato ad agitarsi, impazienti di mostrare
l’un l’altro chi fosse il migliore.
«Mio
padre mi ha comprato una Folletto 2.0» disse Richie Rich, un bambino che nella
vita guadagnava soldi recitando la parte di Macaulay Culkin. «Se solo avessi
potuto portarla a scuola...».
«Impossibile»
lo interruppe Beckham. «È severamente vietato portare scope che non siano di
proprietà della scuola, a meno che non si faccia parte della squadra ufficiale
della propria casa».
Il
professor Beckham ci condusse davanti a delle scope accatastate sull’erba.
«Quest’anno»,
aggiunse, «noi professori abbiamo tutti intenzione di iniziare il torneo di
quidditch il prima possibile. Dalla prossima lezione, dovremo lasciare il campo
libero ai titolari delle squadre per gli allenamenti».
Harry
Potter prese la sua scopa. Lui era l’unico che aveva potuto portarla da casa.
Gli altri ragazzi si fiondarono sul mucchio, cercando di afferrare quelle
migliori.
Presi,
come gli altri, la prima scopa che mi capitò sotto mano. Era leggera come una
piuma.
Beckham
ci fece mettere in fila e accennò un passo di danza.
A
quel punto, montai sulla mia scopa.